Questo è un libro impegnativo, che va letto lentamente e con attenzione. È un romanzo autobiografico: non, quindi, un romanzo d’invenzione, non un’autobiografia, ma qualcosa che si pone in mezzo fra queste due possibilità. Un romanzo sulla memoria, che mi ha fatto molto riflettere.
È la rievocazione che una donna fa, poco più che quarantenne (come Christa Wolf stessa al momento della stesura), della propria infanzia, in occasione di un viaggio nella sua città natale.
Una donna che è stata bambina e poi adolescente nel periodo nazista (Christa Wolf è del 1929, come Nelly, la protagonista), vivendo così come normali e quotidiane tutte le manifestazioni proprie del nazionalsocialismo: dai canti patriottico-nazionalisti al saluto nazista alla celebrazione del compleanno di Hitler, fino agli incendi delle sinagoghe, alla militanza nel gruppo giovanile delle Jungmädel, all’annuncio sul General-Anzeiger, il 21 marzo 1933, dell’istituzione del campo di concentramento di Dachau:
Coloro che in seguito sostennero di non aver mai saputo niente del campo di concentramento, avevano totalmente dimenticato che la notizia della sua istituzione stava sul giornale. (Sospetto che turba: l’avevano davvero totalmente dimenticato. Guerra totale. Amnesia totale.)
Un’infanzia, quindi, indissolubilmente legata alle vicende di quegli anni – inevitabilmente. Vicende, però, vissute come ciechi, come dormienti, che non vedono ciò che non vogliono e non possono vedere, che sanno ma dimenticano di sapere, che fanno «finta di non sentire, di non vedere, trascurare, negare, disimparare, cancellare, dimenticare.»
Ed è estremamente interessante poter leggere nelle pieghe dell’animo di una rappresentante di quella generazione di uomini e donne che non sono mai stati giovani, poter scrutare il punto di vista – contraddittorio, lacerato, pregno di senso di colpa – di coloro che, attraverso la propria cecità, hanno permesso che tutto ciò che conosciamo accadesse.
Oltre alla "trama d’infanzia" in sé, mi è parso molto interessante il modo in cui Wolf ha deciso di raccontare tutto questo (stile che avevo già avuto modo di apprezzare in Medea – testo, però, totalmente diverso).
Ci sono due piani paralleli, che tali sembrano destinati a restare, senza possibilità di intersecarsi: c’è il piano del presente, rappresentato dal momento in cui la protagonista scrive, caratterizzato dall’uso della seconda persona singolare (la scrittrice-protagonista parla a se stessa dandosi del "tu"), e c’è il piano del passato, della memoria, con l’uso della terza persona singolare, come se Nelly fosse una persona altra da chi scrive. Non c’è nessun io in questo romanzo, e leggendo vi accorgerete di quanto questo sia peculiare, dato che autore (fittizio?) e narratore coincidono senza ombra di dubbio.
È interessante, inoltre, il carattere metanarrativo del romanzo: nel corso di tutto il libro veniamo spesso e volentieri posti di fronte al processo di scrittura nel suo divenire.
Per concludere, cito i due autorevoli pareri riportati nel retro di copertina, con i quali concordo pienamente:
«Pochi e poche raccontano in questo modo». (Rossana Rossanda, L’Indice)
«Questo libro di Christa Wolf è tra i pochi che meriterebbero di essere letti e riletti anche in ambito pedagogico, dovrebbe essere lo strumento fondamentale di un corso universitario, per poterne spremere le risorse innumerevoli e gli infiniti ragguagli di cui letteralmente vibra». (Antonio Faeti, L’Unità)
Titolo originale: Kindheitsmuster
Titolo italiano: Trama d’infanzia
Autrice: Christa Wolf
Traduttrice: Anita Raja
Casa editrice: e/o
Pubblicazione originale: 1976
Numero di pagine: 506
Lingua originale: tedesco